Michele Acunto

Un marittimo santangiolese durante la guerra

Michele Acunto, classe 1914, ha trascorso un’intera esistenza sul mare, navigando a vela fin dal 1926, quando aveva appena dodici. Il primo veliero dove si imbarcò Michele, fu il “Luigino“; una tartana comandata dal padrone marittimo Crescenzo Di Iorio. Su questa barca il ragazzo apprese i primi rudimenti del mestiere : legare le cime con i nodi giusti, avvolgere il sartiame, alzare e ammainare le vele, ma soprattutto eseguire senza fiatare gli ordini del comandante e dei marinai anziani. Nei frequenti, lunghi viaggi a Piombino, Viareggio, Civitavecchia, Michele imparò infine a conoscere il mare; l’elemento nel quale necessariamente doveva svolgere il proprio lavoro, come i santangiolesi prima e dopo di lui. Il mare, con i suoi inganni e le sue lusinghe; il traditore sempre pronto a tenderti l’agguato mortale, approfittando di un attimo di disattenzione o, peggio, dell’inesperienza, o della superficialità di una qualche operazione di bordo! Con il mare bisogna essere sempre diffidenti, stare all’erta, mai familiarizzare troppo ! Erano questi gli insegnamenti degli anziani capita· ni di velieri, abituati ad avere con il mare quel rapporto di odio-amore che ha sempre contrassegnato l’attività del marinaio nel corso dei secoli.

A tale proposito Michele ricorda un episodio accaduto nel 1935, quando i Di Iorio vendettero ad un armatore siciliano la goletta “Luigi Padre“. Per trasferire il veliero da Sant’Angelo, venne appositamente da Messina un capitano di lungo corso con l’incarico di assumere il comando dell’imbarcazione. Partirono da Sant’Angelo al mattino presto con catti· ve condizioni di mare. Per di più si era levata una fitta nebbia che sconsigliava il viaggio .

Il comandante siciliano, con un atteggiamento di superiorità verso l’equipaggio santangiolese, disse che lui era abituato a ben altri temporali, nella navigazione oceanica ! Passarono le ore e il “Luigi Padre” si trovò in un fitto banco di nebbia, mentre il mare si era ingrossato e colpiva l’imbarcazione di traverso. Il siciliano allora, calcolando la rotta con la bussola , spostò di alcuni gradi la barra verso dritta, per “prendere il mare di prua” e per usci· re dal banco di nebbia; poi con un’ampia virata, secondo il suo dire, avrebbe nuovamente ripreso la rotta. Si arrivò così alle tre del pomeriggio e finalmente la foschia si diradò completamente. Intorno c’era soltanto cielo e mare: un cielo plumbeo e gravido di pioggia, solcato da nubi nerissime che correvano per gli spazi come un gruppo di cavalli sbrigliati.

Secondo la stima dei marinai santangiolesi, il “Luigi Padre” doveva trovarsi all’altezza  di capo Palinuro, ma malgrado la virata di alcuni gradi fatta dal capitano, della costa nemmeno l’ombra! Navigarono così fino a tarda sera, tra cielo e mare, sotto la violenza dei piovaschi che impedivano la visibilità peggio della più fitta nebbia. Ormai gli esperti marinai di S. Angelo avevano capito che il siciliano era andato completamente fuori rotta, ma non osavano dirglielo! Improvvisamente dalla timoneria un marinaio intravide in quella buia foschia, verso babordo (10), una luce intermittente, come il fascio luminoso di un faro. Trassero tutti un sospiro di sollievo, mentre il comandante dirigeva la barca su quel punto luminoso esclamando con orgoglio;  Ci siamo secondo i miei calcoli, quello dev’essere il faro di Capo Palinuro! Intanto la pioggia era cessata e un fresco vento di Levante spingeva la goletta verso il faro che si stagliava ormai nitido nella massa scura della costa. A guardare bene, però, la sagoma di quel rilievo montuoso aveva un non so che di familiare per i marinai di Sant’Angelo:

E, infatti, avvicinandosi ancora per qualche miglio, ecco presentarsi distintamente la massiccia mole del monte Solaro e, a tribordo  la Penisola Sorrentina ! Il siciliano, tanto sicuro di sé, non aveva fatto altro che tornare indietro, al punto di partenza, e fu vera fortuna se la goletta non “scarrozzò” verso la Sardegna !

Michele Acunto con il passare degli anni aveva fatto tesoro di tutte queste multiformi esperienze acquisite sul mare, ma con l’inizio della navigazione a motore, preferì imbarcarsi su bastimenti a vapore, dove imparò il mestiere di motorista. Fino al 1940 navigò con il “Giuseppe Padre”; un piccolo mercantile che trasportava generi diversi a Viareggio e Piombino, ma allo scoppio della seconda guerra mondiale, dovette partire con la spedizione dell’ARI\ll IR in Russia.

Peggiore sorte non gli poteva capitare ! Il corpo d’armata italiano, male armato e peggio equipaggiato, fu inviato nella sterminata steppa russa, votato ad un vero e proprio suicidio.

Michele si raccomandò al protettore di Sant’Angelo (non per niente portava il suo nome !) e iniziò la terribile esperienza in Ucraina, marciando sulla neve verso il fiume Don. Senonché raggiunto il villaggio di Kantemirowka, fu destinato al centro di smistamento, evitando in tal modo di proseguire per F.ossosch, che significava prima linea.

Restò in terra russa per circa un anno, fin quando, nell’inverno del 1943,  non   fu  impartito  dagli  Alti  Comandi  l’ordine  della ritirata L’odissea  dei soldati italiani è stata mirabilmente  descritta da Giulio   Bedeschi  nel  fortunato volume “Centomila  gavette di ghiaccio”; una  descrizione  particolareggiata   fatta  da  un  testimone  oculare  di quella sciagurata spedizione; ma il semplice racconto di Michele, spesso interrotto da lacrime  di commozione, ci dà ugualmente la misura di quell’immane tragedia  che fu la “Grande Ritirata di Russia” nella sacca del Don. Appena giunse l’ordine di smobilitare il campo, i Russi erano già nelle vicinanze di Kantemirowka Michele, insieme ad altri due Ischitani, Pietro Annicelli di Casamicciola e Giovanni Iacono di Piedimonte, fece provviste di alimenti e munizioni e si diresse con un’autocolonna verso Nikolajewka : era il 16 gennaio del 1943. Durante il percorso furono attaccati dai carri armati sovietici.  La battaglia durò alcune ore; al calar delle tenebre, gli Italiani si sganciarono, deviando verso Nowi-Oskol;  un paese a dieci chilometri di distanza. Ormai si avanzava a piedi, nella sterminata pianura innevata, che andava coprendosi, giorno dopo giorno, di soldati morti per assideramento. La ritirata si tramutava in una immane carneficina !

Finiti i viveri e le munizioni, continuamente bersagliati dai cecchini appostati nei boschetti, falciati senza misericordia dagli aerei nemici, i soldati italiani continuarono a marciare a piedi nella neve, mentre i te­ deschi -bene armati ed equipaggiati- si allontanavano con i camion e le autoblindo. Michele si fermò con ì due amici, per qualche tempo, in un piccolo villaggio di cui non ricorda il nome. Nelle povere isbe, gli Ischitani avevano trovato calorosa ospitalità, quando ormai erano ridotti al­ lo stremo. Digiunavano da vari giorni, erano pieni di pidocchi e, fatto più grave, Giovanni Iacono aveva un principi o di congelamento alle gambe! Michele ricordò di avere riempito il tascapane di diversi medicinali. Con questi si improvvisò medico, iniziando a curare la gente del posto. In cambio ottenne del latte, patate, uova, farina e perfino brodo di gallina per l’amico ammalato. Trascorsero cosi diversi giorni, al calduccio, recuperando le forze e favorendo la guarigione di Giovanni. Ma ormai la zona era diventata pericolosissima; i Russi avanzavano su tutti i fronti, rastrellando i villaggi e catturando moltissimi soldati sbandati. Un mattino, all’arrivo di una colonna di alpini della “Julia”, i tre Ischitani approfittarono per rimettersi in marcia verso Belgorod.

Pietro Annicelli ad un certo punto si separò dagli amici, scegliendo un altro itinerario al seguito di alcuni soldati della Divisione “Sforzesca”. Si trattava, in quella grande confusione, di affidarsi all’intuito e alla buona stella, perché nemmeno gli ufficiali di collegamento era­ no in grado di stabilire quale fosse la strada più sicura da percorrere verso la salvezza. Le forze sovietiche, ormai, convergevano dall’intero fronte del Don con un’ampia manovra a tenaglia, per intrappolare i resti dell’armata italiana nei pressi di Harkov. Michele e Giovanni continuarono a marciare seguendo la Julia per centinaia di chilometri, con l’unico obiettivo di raggiungere la. frontiera polacca presidiata dai tedeschi. Dopo alterne vicende giunsero a Brest, nella Russia Bianca, distante appena duecento chilometri da Varsavia . La salvezza ormai era diventata realtà! Dal ripiegamento delle truppe italiane, erano trascorsi settanta giorni; gli eroici soldati avevano pei-corso a piedi milleduecento chilometri, spezzando decine di accerchiamenti e sbarramenti nemici, seminando nell’inferno della steppa russa centomila morti !. Un contadino dell’Ucraina, abituato da intere generazioni a quelle micidiali temperature, parlando con i soldati sopravvissuti disse loro: Nessuno ha mai tentato un’impresa del genere qui in Russia Il vostro viaggio ha dell’incredibile. Tutti noi stentiamo a crederlo!

Ma i guai per Michele non erano finiti. Avviato in Italia con una tradotta, fu bloccato alle porte di Roma da un rastrellamento tedesco. Dopo l’armistizio, i  nazisti si vendicavano facendo prigionieri i soldati italiani e inviandoli nei campi di sterminio. Michele valutò rapidamente  la drammatica situazione e tentò il tutto per tutto . Trovandosi in coda al convoglio, sgusciò con rapidità fra le carrozze e si dileguò in un vicino boschetto. Vagò per diverse ore nella campagna romana, poi, risoluto,  salì  sul trenino locale per Fiuggi, con l’intento di raggiungere Napoli. Nella vettura apprese che i tedeschi infestavano tutta la zona, impegnati dai partigiani in continui conflitti a fuoco. Ciò aveva determina­ to una feroce rappresaglia nazista, con fucilazioni di inermi cittadini e rastrellamenti nelle città e nelle campagne. Michele meditò sconsolato sul da farsi: proseguire con il treno o darsi alla macchia. Per la verità un senso di torpore aveva invaso tutto il suo essere. Era ormai stanco di fuggire, assalito dai morsi della fan1e e con un grande desiderio di riposare. Preso da questi tristi pensieri, appoggiò il capo al finestrino e si addormentò. Fu riportato alla realtà dal brusco arresto del treno. Tedeschi in vista, pensò istintivamente e si buttò giù dalla carrozza come un gatto, imitato da alcuni compagni di viaggio. A qualche centinaio di metri, infatti, nei pressi di una stazioncina, c’era una pattuglia tedesca in avvicinamento. Il treno si era fermato sul ciglio di una scarpata, non molto ripida, che finiva ai margini di una fitta abetaia. Michele si lasciò andare giù per un sentiero appena accennato ; rotolò per alcuni metri, si rialzò, e dopo una rapida corsa si infilò nel bosco. In lontananza si udiva il crepitio delle armi automatiche e le urla dei soldati tedeschi che inseguivano i fuggitivi. Scappò a perdifiato per un buon tratto, cambiando spesso direzione per disorientare gli inseguitori, poi, sfinito, si acquattò in un avvallamento del terreno, coprendosi  con rami secchi e fascine. Stette lì nascosto per ore, con il cuore che gli batteva nel p etto co­ me un martello, tendendo l’orecchio per cogliere anche il più piccolo rumore, il più impercettibile fruscio. Passarono altre ore, poi verso il tramonto Michele si decise a venir fuori dal nascondiglio. Camminò svelto per qualche tempo e finalmente uscì dall’abetaia che era buio pesto. In lontananza si intravedeva di­ stintamente qualche fiammella, sparsa nei campi, dove si indovinava­ no case coloniche della periferia di Fiuggi. Accolto e rifocillato da quei contadini, trascorse la notte in un fienile, poi all’alba fu accompagnato in aperta campagna e indirizzato per un sentiero verso i monti della Ciociaria.

Impiegò quattro giorni per raggiungere la Campania, valicando montagne, traversando boschi, chiedendo un tozzo di pane e un rifugio per la none. Nei pressi di Montecassino, fu costretto a cambiare per­ corso per la presenza di truppe tedesche che setacciavano la zona. Evitò per puro caso la cattura a Mignano Montelungo, dove fu consumato un efferato eccidio dai nazisti inferociti per l’accanita resistenza dei partigiani. Sfinito, lacero, affamato, Michele raggiunse Teano, dove fu accolto da una famiglia di contadini. Poiché la località era piena di tedeschi che rastrellavano continuamente le campagne, i contadini trasferirono Michele a Calvi Risorta, in provincia di Caserta, e lo nascosero in un casolare. Senonchè la zona subì un martellante fuoco di artiglieria e un proiettile di cannone cadde proprio sul rifugio di Michele. Ferito in diverse parti del corpo, fu dapprima soccorso da alcuni sanitari americani, che gli tolsero le schegge, e poi ricoverato nell’ospedale di S. Maria Capua Vetere.

Dopo qualche tempo fu trasferito nell’ospedale “23 Marzo” di Napoli, dove si ristabilì completamente. Un mattino di ottobre del 1943, Michele partiva da Castel dell’Ovo alla volta di Ischia, con il motoveliero “San Germaro”: le sue peripezie si erano finalmente concluse! Due anni dopo Michele ritornò a Caserta per ringraziare la f glia che gli aveva salvato la vita. Qui trovò la ragazza che si era preso cura di lui -quando braccato e ferito sembrava avesse le ore contate. Inutile descrivere la commozione di quell’incontro e la promessa di…matrimonio che chiuderà felicemente uno dei tanti capitoli amari della seconda guerra mondiale.